venerdì 26 febbraio 2010

Daisissea.

Dedicato a Sharon: il tuo sorriso non mi angoscia, è questa la differenza con le altre.

Equilibrio iniziale.


Era una domenica come le altre di febbraio: il cielo non era limpidissimo, si giocavano le partite di campionato, gli autobus passavano con la stessa frequenza di una metropolitana in Namibia e, mentre alcuni cittadini prendevano il possesso delle vie del centro, gli zingari spadroneggiavano per le strade della periferia. La Roma aveva giocato col Catania, vinto uno a zero, e messo una seria ipoteca sul secondo posto per la rincorsa alla fortissima Inter, prima in classifica.
Arrivai a casa un po' stanco, erano le sei, e mi feci un bel frullato con due banane. Lo bevvi in due sorsi, posai il bicchiere e mi diressi verso la mia stanza; volevo ascoltare l'omonimo dei Colour Haze da tutto il giorno e quell'occasione mi sembrava più che adatta.
Ore sette: ormai era buio, stavo sdraiato sul letto in preda ad un fastidiosissimo mal di testa che mi portavo appresso da qualche stramaledetta ora.
Ore otto: mi alzai dal letto per prepararmi la cena. Spaghetti con le salsicce. Alle dieci e mezza dovevo trovarmi alla stazione Tiburtina, volevo andare a prendere la mia ragazza che tornava da una festa di carnevale fuori porta.
Ore nove: ero seduto a tavola fumando una sigaretta. Squillò il telefono e mi alzai per prenderlo con la stessa leggiadria di un rinoceronte lanoso: feci cadere la sedia, sparsi la cenere della sigaretta per tutto il tavolo e acciaccai la coda del mio cane che guaii come se dolore peggiore non l'avesse mai provato in vita sua. Risposi, finalmente, e sentii la sua voce. La mia Sharon. Gli occhi si gonfiarono, e poi cominciarono a smussarsi prendendo la forma di due bei cuoricini, la faccia diventò il palcoscenico su cui si esibì un perfetto sorriso ebete, le narici si allargarono per un inspiegabie motivo e la voce divenne quella di un dodicenne al quale hanno dato il primo bacio.
Passammo pochi minuti a parlare come due perfetti idioti, senza però utilizzare quegli odiosissimi appellativi che sono soliti scambiarsi gli innamorati. Ma furono pochi minuti, due, tre, massimo cinque.

Rottura dell'equilibrio iniziale.

Passati quei pochi minuti di irresistibile romanticismo da due soldi Sharon alla mia domanda "ma come va?" rispose tutto d'un fiato: "Va male, Pecora è finita in coma etilico e quindi siamo alla ASL ad aspettare che arrivino i genitori, ora si sta riprendendo ma ormai è tardi, non arriveremo mai in stazione perchè dista da qui 10 chilometri, e noi stiamo a piedi. Abbiamo perso il treno e i genitori di Pecora sicuramente non potranno riaccompagnarci, quindi boh vediamo che fare mi sa che rimarremo qui stanotte anche se fa davvero freddo".
Mi sembrò naturale a quel punto rassicurarla, fare un po' la parte del ragazzo protettivo, ed ingenuamente dissi: "Aspetta che mia madre torni a casa, così prendo la macchina ed IO vengo a prendervi".
Ci salutammo e attaccammo. Ero felice di fare questa cosa, le stavo davvero facendo un grosso favore, mi avrebbe amato certamente per questo straordinario gesto d'altruismo.
Cercai di studiarmi la strada da casa mia a Poggio Mirteto. La prima cosa che lessi era che Poggio Mirteto si trova in provincia di Rieti e non di Roma. Il fatto mi scosse un po', ma l'ottimismo era tanto. Poi mi misi a guardare per bene la strada. Dovevo prendere la Salaria per quasi una trentina di chilometri, girare a sinistra all'altezza di Passo Corese, e poi da là inventarmi la strada seguendo la statale 313 che si diramava in mille piccole stradine che portavano verso il nulla. Superato quel difficile tratto mi sarei ritrovato a Poggio Mirteto, 55 chilometri di strada. Non erano pochi ma neanche troppi.
Arrivò mia madre, la salutai e scesi in strada. Mi accesi una sigaretta, entrai in macchina, e partii ancora una volta ascoltando l'omonimo dei Colour Haze. Erano le dieci e mezza.

Peripezie dell'eroe.

Appena entrato in macchina mi resi conto dell'assurdità della vicenda. Non avevo la più pallida idea di come potessi arrivare a Poggio Mirteto, e avevo solo venti euro che mi sarebbero dovuti durare tutta la settimana, cosa ormai impossibile visto che li avrei dovuti spendere per fare rifornimento di benzina. Cacciai fuori la prima di una lunga serie di bestemmie e accelerai. Dopo neanche dieci minuti mi trovavo sul Raccordo, pronto per imboccare subito l'uscita per la Salaria, direzione Rieti. Eccoci, ci siamo, comincia il viaggio. Dai Stefano stai facendo un grande gesto, non potrà fare altrimenti che amarti dopo questa stupenda prova d'amore, davvero, non tutti sarebbero disposti a fare una cosa del genere dopo solo una settimana. Una settimana Stè, una soltanto. Sei grande, sei grande, sei un coglione, chi cazzo te lo fa fare? Stavi tanto bene a casa e ora sei uscito per andare in macchina in un posto che neanche conosci, e non sai neanche come arrivarci, e non hai benzina a sufficienza per tornare e così dovrai spendere tutti i soldi che ti sono rimasti in carburante, e fa pure freddo fuori, e la Salaria Stè, lo stai vedendo? Lo vedi? Questa strada di merda è tutta buia, non c'è neanche una luce accesa. Ci sono solo i simpatici abbaglianti di quelli che ti vengono incontro Stefano. Sei un coglione Stefano.
Pensai a quanto fossi bravo ad autodemoralizzarmi e continuai a guidare per le strade buie: la civiltà ora lasciava spazio a paesaggi bucolici per nulla idilliaci viste le condizioni in cui è abbandonata la campagna attorno a Roma. Bella cosa che stai facendo Stefano, bella cosa.
Dopo venti minuti di macchina non c'era traccia di Passo Corese. Cominciai ad agitarmi. Avevo sicuramente sbagliato qualcosa, le indicazioni stesse forse erano sbagliate, c'era qualcosa che non andava, dio mio ti prego non credo in te però dai una volta tanto dammi un buon motivo per cominciare a farlo no? Un cartello, chiedo solo un cartello con su scritto "Passo Corese" che mi dica di girare a sinistra.
Dopo cinque minuti comparve l'agognato cartello.
"Porco dio finalmente!", così svoltai a sinistra.
La strada divenne qualcos'altro, si trasformò. Insomma non era una strada quella che percorrevo io, era una specie di vialetto in terra battuta molto largo con enormi buche e totalmente buio, dove le tracce di vita erano riconducibili solo al mondo vegetale e forse a qualche batterio scaturito dal brodo primordiale. E così mi ritrovai di fronte alla metafora della vita: non c'erano case non c'era vita non c'erano aspettative non c'erano certezze non c'era nulla. Bestemmiai un'altra volta e continuai per questo vicolo cieco.
Dopo qualche minuto arrivai a Passo Corese: sette case, un'osteria, un tabaccaio e una nicchia dove illuminata era poggiata una Madonna, che nominai invano appena la vidi. Mi fermai davanti all'osteria chiedendo informazioni per Poggio Mirteto. La strada era quella giusta, e una ventata di ottimismo scombussolò tutti i miei organi interni. Sentii l'ardore con cui partii, sentii l'amore che mi muoveva, capii che era proprio l'amore che tutto move, che se c'era un motivo per cui mi trovavo su questa schifosa Terra era proprio l'amore, e quello dovevo perseguire. Sì Stè, l'amore Stè!
Misi in moto e dopo cinque minuti la strada tornò buia e piena di buche, con l'aggiunta di qualche tornante in più. Ma perchè lo stai facendo Stè, chi te lo fa fare? Torna indietro! Porco dio e porca pure la madonna cristaccio infame chi cazzo me lo fa fare sono un coglione.

Spannung.

Seguirno svariati chilometri di tornanti, di buio pesto, di sorpassi azzardati messi in atto da piloti dalla dubbia moralità (almeno sulle quattro ruote), conditi dalla perpetua sensazione che la strada non fosse quella giusta e che stessi andando chissà dove e, a questo punto, chissà perchè. Tutto ciò era sbagliato. Non dovevo trovarmi là. Questo fu uno dei momenti più bui della mia vita.
Ma ecco, dopo interminabili minuti vidi un cartello. Lo illuminai con gli abbaglianti e subito il cuore mi salì alla gola. Gli occhi si inumidirono, me li dovetti sfregare per non piangere.
POGGIO MIRTETO.
Cristo sono arrivato! Dio che magnifica sensazione! Come mi sento vivo! Ora capisco tutto, tutto mi è chiaro. Lo Yin e lo Yang il Bene e il Male la Materia e l'Antimateria. La corda dell'arco aveva ricominciato a vibrare, la freccia del mio anelito era stata scagliata nuovamente oltre l'uomo! Io sono potenza, io sono volontà, io sono libero, la Terra è mia!
Rinfrancato da un nuovo vigore mi preparai ad affrontare quel paesino che ora amavo tanto. Passarono cinque minuti da quando sorpassai il cartello con su scritto "Poggio Mirteto", ma non vidi ancora nessuna festa di carnevale e, ancora peggio, non vidi nessuna casa. Questa volta bestemmiai a mezza bocca, l'euforia era passata ma l'ottimismo dilagava in macchina.
Dopo pochi minuti superai un altro cartello.
Misericordia.
Ora, ochei è un paese che si chiama Misericordia, manco a farlo apposta, però cristo iddio ladro dov'è Poggio Mirteto?
Neanche un minuto di macchina e mi ritrovai davanti al cartello "Misericordia" sbarrato. Continuai la strada e vidi un altro cartello.
Poggio Mirteto.
Risi. Che storia era mai questa? Cinque minuti ancora di tornanti.
Ferruti.
Avrò sbagliato qualcosa. Girai a destra.
Poggio Mirteto.
Mi sembrò che andasse meglio.
Bocchignano.
Risata isterica. Tornai indietro.
Poggio Mirteto.
Ferruti.
Poggio Mirteto.
Luci, persone, maschere di carnevale. Ero arrivato.

Scioglimento.

Appena possibile parcheggiai, mi girai una sigaretta e me la fumai. Mai mi ero goduto così tanto una sigaretta, neanche dopo quella famosa scopata in quella notte di aprile. Quel giorno mi feci il mio sogno erotico che durava ormai da sei anni. In pochi credo abbiano avuto l'onore di realizzare il proprio sogno erotico. La scopata in realtà fu pessima, ma la soddisfazione fu massima. Lo facemmo tre volte quella notte: la prima volta durai due minuti, la seconda poco più di cinque, la terza non venni proprio. Ma quella sigaretta... quella sigaretta vinceva su tutto ciò che c'era stato prima.
Chiamai Sharon e dopo pochi minuti la vidi che mi veniva incontro. Non feci altro che bestemmiare, andammo a prendere i suoi amici e ripartimmo con la macchina, la mia macchina, direzione Roma.
Il viaggio fu piacevole, avevo Sharon con me e capii perchè avessi voglia di prenderla fino a Poggio Mirteto (merda): per il semplice fatto di vederla. Cancellò tutte le mie ansie, tutte le mie preoccupazioni, tutti i miei dilemmi. La mia Beatrice, il mio angelo purificatore, era lei.
Ascoltammo "The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars". Mi dissero che la festa era stata divertente, ed io risposi che quel genere di feste mi facevano schifo: promiscuità gratuita, vino da quattro soldi, gente che puzzava e musica di merda. Non poteva esserci nulla di peggio, nulla. Ingenuamente un ragazzo, mi pare si chiamasse Matteo, mi chiese se fossi di destra. Siccome non mi piacevano quelle che possono definirsi "frikettonate", allora ero di destra. Il discorso filava nella sua testa, e volevo appoggiarlo. Ma non mi andava di prenderlo in giro così gli dissi che non ero di destra. Jacopo, un altro ragazzo che stava dietro, si lamentò per tutto il tempo perchè doveva vomitare. Aveva bevuto tanto e soffriva la macchina. Aprii il finestrino e non mi curai troppo delle sue lamentele, ci avrebbero pensato Sharon e Federica al povero moribondo. Riaccompagnai tutti sulla Tuscolana, più o meno all'altezza di Cinecittà. Salutai tutti, feci benzina, e da lì tornai a casa. Cominciò a piovere.
Arrivai a casa che non erano ancora le due, mi sdraiai sul letto, pensai a lei e provai a dormire. Non ce la facevo, un'erezione rendeva la cosa complicata. Andai in bagno, mi masturbai, pensai a lei, venni, tornai in camera, erano le due e dieci, mi sdraiai sul letto, pensai a lei e dormii.

giovedì 18 febbraio 2010

Dite che è troppo personale?

Era giunta l'ora di cena, mia sorella aveva apparecchiato per bene la tavola e mia madre aveva già portato le pietanze. Dei crostini: alcuni con mozzarella e prosciutto, altri con mozzarella ed acciughe. Le chiesi se ci fosse altro da mangiare, lei si alzò e portò una ciotola di lattuga. Feci un sorriso falso come una tuta con su scritto "SPORT!" e cominciammo a mangiare. Dopo qualche morso al crostino, sentii mia madre parlare.
-Ragazzi, durante questo fine settimana sarò un po' meno presente in casa. Insomma, ci starò poco.
Io non diedi molta importanza alla faccenda, pensai subito al fatto che non avrei più avuto a disposizione la macchina, così un po' incazzato, ma più che incazzato, amareggiato, le chiesi per quale motivo sarebbe stata meno presente.
Mi guardò negli occhi e mi sorrise.
-Stè, hai presente Giuseppe vero? Beh, diciamo che non è solo un'amicizia, è qualcosa di più.
A quel punto accadde quello che sempre avevo temuto. Mia madre aveva un altro uomo nella sua vita. Un altro dopo mio padre. Mi venne da piangere ma fui forte e la guardai con la faccia di uno che la sapeva lunga, così proseguì.
-Mi vedo con Giuseppe, insomma, avete visto no che ci sentivamo sempre? Ebbene è nato qualcosa tra noi, non so che cosa, la situazione è molto confusa, però averlo ritrovato mi rende felice, mi fa stare bene. Insomma, io i sentimenti che provavo per vostro padre li provo ancora, questa è un'altra cosa, totalmente diversa, non saprei che dire, mi fa stare bene, mi fa sentire...
Silenzio.
-Viva?- le chiesi io.
Annuì con la testa e continuò a guardarmi. I sui occhi brillavano di una luce che non vedevo ormai da tantissimi anni, e la cosa mi commosse a tal punto che le lacrime sembravano proprio sul punto di schizzare fuori dai miei occhi come l'acqua da una tubatura rotta. Riuscii a trattenermi con uno sforzo sovrumano e continuai a mangiare. Non avevo fame, ma dovevo mangiare, dovevo far finta che tutto ciò non stesse accadendo.
In realtà pensavo di essermi preparato ad una cosa del genere, avevo pensato al fatto che sicuramente avrebbe trovato qualcun altro prima o poi. Ma come al solito vivere le cose è molto più difficile di quanto possiamo pensare, le reazioni che si ottengono in precise occasioni non sono quasi mai quelle che immaginiamo, soprattutto quando non si tratta nè di fisica nè di chimica ma semplicemente di emozioni.
Mia madre continuava a guardarmi, sembrava che avesse escluso mia sorella da quella conversazione, e aveva stampato in faccia un invisibile sorriso ebete. Sono suo figlio, lo riconosco un sorriso invisibile, soprattutto se ebete. Sembrava che avesse trovato il feeling con me che non era riuscita altresì a creare con mia sorella, quindi cominciò a parlarmi di lei, delle sue sensazioni, di me, di Giuseppe, di mio padre, dell'amore, della mia ex ragazza.
Mamma per dio smettila, mamma ti prego non ce la faccio non mi parlare così mamma ti scongiuro basta non voglio sentirti stai zitta sei una persona di merda mio padre mio padre mio padre era tuo marito io sono vostro figlio non le puoi fare certe cose non le devi fare mi fai schifo mamma ti prego smettila di parlare non ce la faccio più cazzo questo crostino è diventato freddo non ho fame non capisco se fuori sta piovendo! Mamma, ti prego, ti scongiuro, basta.
Continuai ad annuire con la testa mentre lei parlava, e a bofonchiarle risposte banali, come conveniva in quella situazione.
Papà riuscirai mai a perdonarla, nonostante tu sia morto e tu non possa sapere cosa sta accadendo adesso?
Stefano, riuscirai mai a perdonarla per quanto ti sta facendo soffrire adesso?
Finii di mangiare e mi congedai da tavola, mi girai una sigaretta e scesi immediatamente con il pretesto di dover portare a pisciare il cane. La mia mente balzò subito ad una canzone, Lontano Lontano di Luigi Tenco, e cominciai a versare tristissime lacrime che lente, mai così lente, attraversavano le mie infreddolite gote, pensando a mio padre che la cantava per lei, sua moglie, mia madre. Un amore ormai troppo lontano.


Lontano lontano nel tempo
qualche cosa
negli occhi di un altro
ti farà ripensare ai miei occhi
i miei occhi che t'amavano tanto
E lontano lontano nel mondo
in un sorriso
sulle labbra di un altro
troverai quella mia timidezza
per cui tu
mi prendevi un po' in giro
E lontano lontano nel tempo
l'espressione
di un volto per caso
ti farà ricordare il mio volto
l'aria triste che tu amavi tanto
E lontano lontano nel mondo
una sera sarai con un altro
e ad un tratto
chissà come e perché
ti troverai a parlargli di me
di un amore ormai troppo lontano.

venerdì 5 febbraio 2010

Favola da raccontare ai figli.

Premessa: non sono fatto, sono perfettamente lucido. Solo che sto aspettando che la cena sia pronta, quindi beccatevi questo...

TIM, IL GIAPPONESE MONOPALLA


C'erano otto case in fila, una dopo l'altra. Tim le guardava, e non riusciva a capacitarsi del fatto. Perchè otto case e poi il nulla?
Quella zona di Benwood risultava davvero inquietante agli occhi di un giovane quattordicenne. Un deserto di ghiaia perpetuamente accarezzato da una leggera brezza fredda come la morte, che faceva trasalire chiunque si trovasse da quelle parti. Deserto, il nulla, e otto case in fila dove abitavano normalissime famiglie medio borghesi. Tim adorava andare da quelle parti, respirare quell'aria gelida, quasi pura. Stava seduto per terra con le gambe incrociate e un blocco da disegno poggiato su di esse. Ma non c'era molto da raffigurare in quel panorama desolato, se non le otto case, che Tim non provò mai a riprodurre su carta. Eppure disegnava, e diceva che ciò che rappresentava era proprio quello che i suoi occhi vedevano. Scettico il suo professore d'inglese, il signor Brian Orkney, decise un giorno di dare un'occhiata ai disegni del giovane. Ritraevano corpi nudi che si dimenavano tra le fiamme dell'inferno mentre un robot gigante faceva un barbecue in compagnia di formose ragazze in top less.
Il professore non capiva.
Prese la sua mazza da baseball e con essa diede fuoco ai disegni di Tim.
Il ragazzo, di origini giapponesi, si arrabbiò moltissimo e disse al professore che lo odiava e scappò via.
Torno in quella zona di Benwood, quel deserto con otto case.
Bussò alla quarta porta.
Aprì un vecchio signore, sulla settantina, con un cappello da cow boy in testa.
"Figliolo" disse "che ci fai qui in questo posto a quest'ora con questo freddo? Lo sai che non è bene che i bambini come te vadano in giro da queste parti, e poi cosa diavolo vuoi da me, perchè hai bussato alla mia porta?"
Tim, con lo sguardo fisso sugli occhi del vecchietto, rispose con tono sermonile: "Lei finirà all'inferno".
Il vecchio allora, adirato, non esitò a rispondere: "Brutto muso giallo di merda, ti accolgo nel mio paese e che cazzo fai? Vieni da me a rompermi le palle dicendomi che me ne andrò all'inferno. Io quegli occhi a mandorla te li cavo!".
Prese l'ombrello e uscì di casa fischiettando una canzoncina popolare afghana.
Tim rimase deluso dal comportamento del vecchietto, e cominciò a piangere. Poi cominciò a ridere.
Poi riprese a piangere.
Pietro, il cane di John il fattorino, passava da quelle parti. Aveva in bocca una piccola quaglia, l'aveva appena ammazzata. Vide il piccolo Tim che piangeva, così per cercare di alleggerire la situazione andò da lui, posò la quaglia esanime accanto ai suoi piedi, e cominciò a ballare su due zampe, allargando le zampette anteriori e tirando su il musetto.
Tim, che non sopportava i cani, gli diede un calcio nelle palle e andò dal suo amico Salamandra, che nel frattempo si stava fumando una canna.
Fumarono insieme Tim e Salamandra.
Ah Salamandra, lui sì che era una gran personalità tra la gioventù di Benwood.
Mentre Salamandra si era chiuso in bagno con la scusa di doversi togliere una ciglia che gli procurava dolore (in realtà doveva urinare), Tim si grattò le palle, a pelle. Purtroppo non si era tagliato le unghie, e con l'indice raschiò troppo forte spellando letteralemente la parte destra dello scroto. Una palla cadde per terra.
Dolore insopportabile.
Urlando, prese un reggiseno e lo indossò. Così andava molto meglio.
Prese il testicolo caduto e lo mise in una scatolina d'argento, così uscì di casa salutando i genitori di Salamandra e, dopo averli ringraziati per la loro cordialità, tornò a casa dai suoi genitori cinesi.
Lui era giapponese ma i genitori erano cinesi, per chi se lo fosse domandato.
A casa il padre stava insegnando il karate alla wii al fratello minore di Tim, Tom. La madre frattanto si stava cimentando in cucina con un avocado, il quale le spiegò perchè non fosse conveniente querelare il signor Reynolds (in pratica per via dei suoi potenti agganci con la malavita scozzese).
Lei non gli diede retta, lo tagliò a fettine e ci fece un'insalatona, ma grande grande grande, con noci pere mozzarelle e pomodori.
A cena erano tutti contenti, anche Tim, il quale teneva in tasca la scatoletta d'argento contenente il suo testicolo ormai inesorabilmente staccatosi dal suo corpo.
Risero, risero tantissimo. Poi guardarono una partita di Melball alla televisione, ed infine stanchi andarono tutti a dormire.

La loro casa prese fuoco nella notte. Un giovane fanatico di Hitler disse che l'alleanza coi cinesi fu la condanna a morte per la grande Germania nazista. A nulla valsero gli interventi del signor Hoffmann e di James la tartaruga: ogni volta che loro correggevano la sua strampalata teoria dicendo che Hitler si alleò con i giapponesi e non con i cinesi, il giovane neonazista rispondeva seccato: "Cinesi, giapponesi, messicani, peruviani... non importa. Sono tutti musi gialli".
Così morì Tim, vittima dell'attentato di uno squilibrato, vittima della società moderna sempre più propensa ad accettare teorie di tipo razzista o giù di lì. Ma una cosa Tim ce l'ha lasciata, una sola cosa che dovrebbe far riflettere l'intera umanità. Il suo testicolo non prese fuoco poichè protetto dall'argento, che a quanto pare sì rivelò ignifugo, dettando lo stupore generale.
Il suo testicolo ora è conservato in salamoia presso il frigo della signora Cingolani, chi volesse andare a vedere la reliquia per far sì che certe storie non vengano dimenticate, farebbe bene a chiedere al vecchio fattore di Lilspool, il signor Weddish, dove abiti la signora Cingolani. Quel vecchio pederasta vi darà la risposta.

Questo racconto è dedicato a tutti i giudei del mondo, ingiustamente perseguitati da migliaia di anni. Poverini.
Ed è anche dedicato ai nazisti, la forza delle loro idee vivrà per sempre nelle eccelse menti di pochi cerebrolesi di merda.

Insomma è un racconto che vuole far riflettere. Siamo tutti figli di DIO (il gigante invisibile che quando lo chiami non risponde ma che comunque esiste) e non dovremmo ucciderci, visto che siamo tutti fratelli essendo figli di DIO (il gigante invisibile che quando lo preghi affinchè passi l'autobus ti offre in omaggio un acquazzone letale per i bronchi).

mercoledì 3 febbraio 2010

Questo è davvero inutile.

Non è una crisi quella che mi porta a non scrivere in questi giorni.
Pare strano però, dato che sto spendendo la maggior parte delle mie ore (circa il cento per cento) in casa. Costretto in casa da una settimana, avrò sicuramente avuto il tempo per partorire qualche altro aborto (non coglietela come citazione colta ve ne prego, i miei sono veri aborti) e pubblicarlo su questo blog a detta di molti SEGUITISSIMO (nonostante gli unici due commenti che mi ritrovi siano di Rob, scritti entrambi in un giorno a distanza di pochi minuti l'uno dall'altro). Perchè sono un relegato in casa? Questa volta non è un qualche strano malessere esistenziale che mi affligge e che grava sulle mie spalle, stavolta si tratta di una semplice febbre in combutta con un simpatico mal di gola. Ma visti i miei precedenti (tra il 2009 e il 2010 pare che abbia mostrato tutta la mia cagionevolezza) ho preso molto sul serio la faccenda e ho deciso di ritirarmi per una settimana dentro casa, a mò d'eremita insomma (non sono mai stato ipocondriaco e spero di non diventarlo mai, nonostante le premesse siano sufficientemente incoraggianti).
Solo che le cose accadono, è questo il grande problema. Accadono cose belle e cose meno belle, cose che non riesco a capire se siano belle o meno, ma comunque sono pieno di tanti stupidi avvenimenti che costellano inesorabilmente ogni mia giornata. E io non ce la faccio a scrivere queste cose, non ce la faccio proprio. Per carità, avrei cose molto simpatiche da raccontare, aneddoti che probabilmente storcerebbero le tristi bocche di chi di solito si ritrova da solo in casa davanti ad un pc, magari con un po' di musica di sottofondo, ma non riesco a scriverli.
Siccome non sono poi così bravo a scrivere, ho capito che l'unica cosa di cui so vagamente narrare in veste romanza è il nulla. I fatti soliti, quotidiani, quelli che trovano molto spazio nella nostra vita ma forse non abbastanza nelle varie arti (non che voglia in qualche modo ritenere ciò che scrivo un qualsiasi tipo di forma artistica).
Sto frequentando una ragazza adesso, con tutte le problematiche che ne derivano (le sue emorragie uterine per esempio, o il fatto che io appena cominci ad uscire con una ragazza mi renda conto di non sopportarla) e insomma, non so quanto riuscirò a tirare avanti questa storia (ah Ginevra, se stai leggendo ti giuro mi dispiace tantissimo, volevo dirtelo oggi/domani, comunque appena possibile. Ma sù, è improbabile che tu legga ciò prima che io te ne parli no?).
Altri fatti che stanno sconvolgendo la mia vita riguardano, come al solito, il campo musicale.
Evento numero uno: Shot By Both Sides dei Magazine è diventata una delle mie canzoni preferite.
Evento numero due: il mio disco preferito dei Led Zeppelin non è più Led Zeppelin II ma il sottovalutatissimo Houses Of The Holy (e questo è davvero un evento importante, perchè un cambio del genere metafisicamente parlando cambia quasi totalmente la mia concezione del mondo: una nietzschiana morte di dio con conseguente crisi delle certezze risollevano dagli abissi un nuovo e sorprendente nichilismo musicale che, paradossalmente, mi spinge ancora più in là nella ricerca di nuovi ascolti; questo è un discorso complesso che mi piacerebbe affrontare con me stesso).
Quindi queste ultime giornate sono state troppo piene affinchè potessi scrivere. Io mi nutro della mia noia e della mia apatia, della mia atarassia e della mia autocommiserazione (probabilmente infondata). Non ho bisogno d'essere triste per scrivere, ho bisogno di essere fumo, nulla.
Ed ora, forse anche grazie a Ginevra, un corpo sento di avercelo eccome. E la cosa mi fa bene. Ma non voglio stare bene ancora per molto, almeno non con Ginevra.
Poi in piscina, il posto in cui lavoro, c'è una mia amica/collega che preme affinchè io scriva una storiella sugli accadimenti che hanno luogo tra la clorose acque del New Green Hill. Niente di particolarmente importante, si tratterebbe di un breviario del caos (tanto per continuare con le citazioni) in cui verrebbero narrate le gesta di malefici nani senza barba i quali, piuttosto che battere le gambe mentre nuotano, sovente preferiscono rigettare di stomaco o defecare a tradimento. Il mestiere dell'istruttore di nuoto è davvero mal retribuito e poco considerato dalla popolazione mondiale. Un impiegato quanto prende, otto euro l'ora? Dieci? Giuro che non lo so. Ma sei euro e mezzo a turno per tenere a bada dei mocciosi mocciolosi (ah che schifo il loro mocciolo quando esce dai loro bei nasini) che vomitano e cagano a rotta di collo mi pare un po' pochino. Allevare il futuro dovrebbe essere diversamente ricompensato, sono più artefice io del futuro del mondo piuttosto che un qualsiasi calciatore o deputato del cazzo. In due anni e mezzo che faccio questo mestiere avrò avuto a che fare con almeno un centinaio di pupazzetti animati. Sarebbe carino da parte della società prendere atto di questo.
E la mia filippica sulla società economico/politica dei giorni nostri può concludersi qui; ne approfitto per salutare Claudia, l'istruttrice, che leggerà sicuramente questo post (mi chiede di aggiornarla ogni volta che scrivo qualcosa di nuovo, che io sappia ho circa 5 fan).
Dopo questa inutile valanga di frasi che pare piuttosto una specie di dissenteria verbale, sono felice di comunicarvi che sto per alzarmi dalla sedia per prepararmi un panino con salame e maionese.
Buona giornata amici, vi voglio bene pure se non commentate mortacci vostra