C’erano delle volte, quando stavo a letto sotto le coperte,
in cui mi capitava di ripensare ad avvenimenti lontani dei quali tuttora mi
vergogno moltissimo. Ogni qualvolta la mente volgeva a questo tipo di pensieri,
l’imbarazzo passato tornava a farsi presente, più vivo che mai, e il sotto
coperta diventava il nido in cui mi rifugiavo dal giudizio altrui. E ne ho
passate tante di notti simili. La cosa brutta del coricarsi è proprio questa,
il momento in cui ci si sdraia e si decide di dormire. Certo, la mia coscienza
sporca è sempre stata un grosso problema; era quello infatti il momento in cui
mi giudicavo più ferocemente, quello il momento in cui dovevo trovare delle
giustificazioni convincenti per ingannare me stesso. Una vita passata ad
ingannare gli altri e me stesso, in queste poche e concise parole si potrebbe
descrivere la mia effimera esistenza. Eppure non erano questi i momenti in cui
il coricarmi mi risultava più doloroso.
Una donna. Una donna da sola è riuscita a tenermi insonne
intere notti, una donna da sola è riuscita a farmi traboccare lacrime sul
guanciale, una donna da sola è riuscita a farmi fremere dalla rabbia, a farmi
struggere dal dolore, una donna da sola. Una donna, un amore, il dolore più
grande che mi stesse arrecando la vita. Mi ricordo ancora quella notte passata
insonne pensando a lei, rigirandomi nel piumone, mordendo i cuscini, tirando
pugni al materasso: mi venne la febbre, finché alle sei del mattino non riuscii
ad addormentarmi. A mezzogiorno mi ero alzato, e della febbre più nessuna
traccia.
Mamma, da quando me ne sono andato di casa sono regredito
tornando ad uno stadio infantile che poco si confà ai miei ventitré anni. Ci
sono delle notti, quando l’addormentarmi riesce più difficile, in cui vorrei
tornare ad avere quattro anni per potermi alzare dal letto in piena notte,
entrare nella tua stanza, ed infilarmi sotto le coperte accanto a te, protetto
dal tuo abbraccio la cosa più bella che la vita mi abbia mai donato. Mamma, da
quanto tempo non mi abbracci, troppo. Ricordo con tanta nostalgia le volte che
mi rannicchiavo tra le tue braccia. Ma crescere è significato rinunciare a
tutto questo, e solo ora mi rendo conto del vuoto che questo crescere mi ha
lasciato.
Non importa quanto calde possano essere le coperte; la
stanza era gelida, ed io da solo non riuscivo ad affrontarla. “La mia stanza
ridiventava il punto fisso e doloroso delle mie preoccupazioni” scriveva
Proust, e in effetti tra quelle gelide mura si racchiudeva tutto il mio
malessere. Era l’armadio bianco, era la scrivania ingombra, era l’orologio a
muro. Tutto mi fissava con sguardo inquisitore e tutto mi ricordava la mia
inettitudine. Lo specchio, che sempre è stato il mio peggior nemico, mi
rammentava la mia viscida esistenza. Non che non sia piacente, ma c’è qualcosa
nel mio sguardo che non sopporto e che non riesco a trattenermi dall'odiare Nei
miei occhi verdi ho sempre visto una fragilità così femminile da farmi tremare.
Non c’era via di scampo da questo
orrore, se non il sonno che come sempre tardava ad arrivare.
Vorrei semplicemente qualcuno accanto che mi protegga e che giustifichi la mia presenza qui.